Quelle domeniche d'autunno - UNO E DUE


Quelle domeniche d’autunno grigie, piovose, un po’ rallentate, hanno il potere di rallentare e rendere grigia anche la mia lei, che si arrende all'umore monocorde di un tempo atmosferico sospeso e surreale. Il grigio della pioggia diventa cielo e il cielo dà due colpi di pennello alle case, alle strade, alla luce nebbiosa del sole, fioca e tiepida.  Lei si sdraia sul divano o sul nostro letto ed è in grado di fissare nuvole e nebbia senza sosta, come se fosse alla ricerca inutile di un guizzo colorato. E, tra nuvole, pioggia e pensieri che cominciano a sgorgare decontestualizzati, finisce per deprimersi.
Mentre lei si lascia andare al sentimento più fiacco guardando la pioggia di ottobre, io mi metto di buona lena a correggere i primi compiti in classe dei miei ragazzi. Io in pigiama, lei in pigiama. Io seduto al tavolino, immobile, lei davanti alla finestra, immobile. Poi si alza, sparisce in bagno, torna fresca di doccia e di abiti puliti e lascia al suo passaggio una scia di sapone al bergamotto e deodorante al tè verde. I capelli perfettamente pettinati, nonostante non siano previste visite o uscite. Prende di nuovo posto davanti alla finestra, sdraiata sul divano. Io comincio a sentirmi in colpa.

Ti va di fare qualcosa insieme? – le chiedo. Ma alza le spalle, mormora soltanto Tra poco vado a cucinare.
Si alza di nuovo, lega i capelli in una coda, mette il grembiule e si ritira dietro l’angolo cottura – benedetto angolo cottura in sala, sì, qui, proprio davanti a me, così posso guardarla e controllarla e stare con lei anche se, in teoria, per quel che stiamo facendo, dovremmo trovarci in due stanze diverse.

Che cucini oggi? – le chiedo. Ma alza le spalle e mormora alla pentola di fronte a sé Sto decidendo.
Fissa talmente tanto la pentola che quasi sembra infilarci dentro la faccia. Lo so, so che non sta decidendo cosa cucinare: sta inseguendo un pensiero pungente. Che, prima o poi, oggi, uscirà fuori.
Torno alle formule matematiche, impazzite sotto le penne dei miei ragazzi. Sento lei battere la carne sul tagliere, commentare ogni suo gesto con un Ok o Fatto o Bene. E dopo poco arriva alle narici odore di buono e ci metto un po’ per capire che dall’olio che sfrigola si passa all’odore della carne rosolata e poi alla cipolla e poi al pomodoro – e poi ancora arriva una lontana eco di formaggio filante.

Che fai? – le chiedo. Alza ancora le spalle e risponde Faccio l’impasto per le fettuccine.
Muove la schiena con ingenuità e così le mani, senza l’esperienza e l’imponenza matronale delle nostre nonne, che di pasta in casa ne hanno fatta a quintali. Eppure il risultato è lo stesso, o quasi. Le fettuccine sono chiare, cristalline, pure come lei, come le sue mani, che sembrano far tutto per la prima volta. Come fosse una bambina. Lascia le fettuccine sulla spianatoia, arrotolate e infarinate, simili a stelle filanti. Toglie il grembiule, accorcia ancora di più i capelli raccogliendo la coda in uno chignon alto ed esplosivo.
La guardo scivolare sul parquet con le ali ai piedi.

E ora che fai? – Le chiedo. Fa spallucce e indugia prima di rispondermi. Dice ehm tre o quattro volte, trascinando il monosillabo, e alla fine risponde di una risposta lenta: pulisco qualcosa per bene. Dice. Ma molto per bene. Aggiunge. In maniera approfondita. Spiega.
A questo punto i miei sensi di colpa sono ovunque e il mio cervello non è in grado di capire neppure quanto faccia due più due.
Ascolta, amore – biascico – senti, dai, smettila, è domenica anche per te.
Fa un gesto con la mano come per scacciare le mie parole, è un Lascia perdere che aumenta a dismisura i miei sensi di colpa.
Facciamo che, dico, guardiamo un film? Ti va?
Ma guarda che io non sto lavorando. Dice urlando dal bagno. Poi torna in cucina, apre lo sportello dei detersivi e prende l’aceto che usa per pulire. E aggiunge: sto facendo una tabella di marcia.
Tabella di marcia per cosa?
Per il matrimonio.
Ma hai idea di quanto manchi ancora?
Non poco tempo. Ma neppure troppo. E devo fare in modo che sia tutto perfetto.
Tipo? - Le chiedo gettando la penna rossa sull’ultimo compito in classe, che ho letto senza capire. Come sempre avviene quando lei è in agitazione: leggo le cose senza capirle.
Tipo: la casa deve essere tirata a lucido, ma devo iniziare svariati giorni prima. Quindi, adesso cerco di capire quanto ci metto a pulire per bene una cosa alla volta. Una cosa al giorno. E poi – aggiunge dopo che l’ennesimo strampalato pensiero le colpisce la testa così, a caso, portato dal vento, come un soffione – e poi un sabato di questi dovremmo partire da qui, da casa nostra, una mezz’ora prima della cerimonia e vedere quanto ci mettiamo ad arrivare in comune col traffico. Così capiamo a che ora è meglio uscire.
Perdonami. Ma questa è follia. Le dico senza troppi giri di parole. E poi io che c’entro? Sei tu quella che arriva per ultima, esci e prendili tu ‘sti benedetti… tempi. Nemmeno fossimo allenatori alle olimpiadi.
Al contrario di quanto faccio sempre, cioè tenere per me i pensieri più rudi o che possano graffiarle troppo la sensibilità, ecco, le ultime tre righe le dico ad alta voce. Sbattendo a destra e sinistra la penna rossa dei compiti. E non contento aggiungo: guardiamoci un film o… o facciamoci due coccole se proprio vuoi fare qualcosa.

Avete presente quel silenzio carico tra il fulmine e il tuono? Ecco, è il silenzio la prima cosa che sento ed è la prima cosa che mi turba e mi distrugge e mi fa venir voglia di riavvolgere il tempo. Ma è inutile. Quando sento il silenzio tra il fulmine e il tuono è già tardi. Lei. Lei sta già piangendo. E non è andata in bagno o in camera da letto o sul terrazzo o chi sa dove, cercando di riprendersi senza farsi vedere da me. No: piange davanti a me, tanto che mi viene il dubbio che stia piangendo per finta, come i bambini che strepitano senza lacrime. Solo per capriccio. Ma lei le lacrime ce le ha e il suo non è un capriccio.
Mi alzo, l’abbraccio, le sfilo la bottiglia di aceto dalle mani e la poso sull’isola dell’angolo cottura.
Mi auguro che tu non stia piangendo per il tempo della corsa in automobile.
Strofina la testa da sinistra a destra lungo il mio petto. Singifica: no.
E allora perché?
Ho paura di non fare in tempo. Mormora. A vestirmi, truccarmi, pettinarmi. Forse – e tira su col naso – forse chiederò alla parrucchiera se mi fa un’acconciatura non troppo complicata, così ci mette di meno.
Ma che dici? È una professionista, saprà come fare. Ma che paure sono queste? Di solito, che so, si ha paura che lo sposo scappi dall’altare o si ha paura di mettere un anello per sempre, ecco, queste sono le paure che si provano in certi casi. No?
No. Dice ferma.
Allora, dai, dimmi che paura vera hai, perché pulire il bagno o farsi acconciare i capelli in tempo sono solo scuse.
Mi guarda un istante negli occhi. Lei che non lo fa mai. È un istante lunghissimo, in cui le sue iridi bagnate baluginano di un colore nero lucente che non le ho mai visto. Magnetiche, catturano, risucchiano, se le guardi troppo a lungo entri nel suo mondo e, se cominci a pensare come lei, sei destinato a salire su un ottovolante che non si ferma mai.
Lo so, lo so che è il mio, il nostro matrimonio - dice - ma ho paura di stare al centro dell’attenzione. Ho paura che tutti mi guarderanno, che tutti mi toccheranno come la statua di un santo. Ho paura che tutti mi saluteranno, mi baceranno, ho paura di dover dire a tutti una frase di circostanza, quando, invece, vorrei solo sposarmi con te. Ho paura di non riuscire a controllare le emozioni e lo sai che io non le controllo e lo sai che quando non le controllo piango anche se non sono triste. Ecco, ho paura di piangere solo perché sono emozionata e io quando piango davanti a tutti muoio di vergogna. È un serpente che si morde la cosa, capisci? Io non voglio avvicinarmi a te e all’altare e piangere o ballare con te e piangere o recitare la formula e piangere, scambiarci le fedi e piangere. Mi odio al solo pensiero. Non voglio che la voce mi si strozzi. Capisci di che ho paura? Devo fare una cosa tanto importante davanti a tutti.

L’ottovolante è al suo millesimo salto nel vuoto, la mia testa gira, ma io non riesco a staccarmi dai suoi occhi penetranti e maledettamente erotici. E dice un’ultima cosa. Che fa fare alla giostra un giro sottosopra e noi due, insieme, ce ne andiamo a testa in giù:
Ti prego, dice, ti prego, insegnami a sorridere.

L’ottovolante fa una sterzata violenta prima di frenare. Mi stacco dai suoi occhi, i miei roteano e vedono le stelle, ho bisogno di sedermi. Lei non mi stacca lo sguardo di dosso. Occhi penetranti e maledettamente ingenui, due tranelli in cui cado sempre, pur sapendo che sono tranelli – e non vedo l'ora, ogni volta, di poterci cadere di nuovo. Il viaggio vorticoso nella struttura dell’ottovolante non è immergersi nella sua paura. Non è abbandonarsi ai suoi pensieri, non è il timore di piangere o stare davanti a tutti.
Il vero giro sull’ottovolante è la richiesta. Insegnami a sorridere. Non pensate che sia la richiesta più struggente che vi possa essere fatta? E, all’improvviso, capisco perché provi tanta paura nel dover pronunciare una formula davanti a un officiante e a tanta gente. Lo capisco, subito. Non c’entra nulla la sua sindrome. C’entra solo il fatto che, quando sei lì, e dici tutte quelle cose preimpostate e bla bla bla, stai promettendo che la farai sorridere e le stai chiedendo di fare altrettanto. Le stai promettendo che l’abbraccerai e le chiedi altrettanto. Le stai promettendo di baciarti e le chiedi di fare altrettanto. Le stai promettendo di stringerle forte le mano nel viaggio infinito sull’ottovolante e le chiedi di ricambiarla, quella stretta. E di urlare all'unisono per la sorpresa e l’emozione e di riprendere fiato assieme. E, insomma. È una promessa piena di responsabilità. Non è solo un sì. Ecco. Ora un po’ di paura è venuta anche a me.
Sai, le dico, sai come si fa a sorridere? Scuote la testa.
Metto i pollici agli angoli delle sue labbra e tiro su la pelle. Scoppia a ridere.
E poi non puoi piangere, le sussurro. Ci sono io vicino a te. Mica ti sposi da sola!

Alla fine scegliamo un film, un film con un migliaio di zombie stanchi e affamati in uno scenario fumante e diroccato, e decidiamo di vederlo sotto una coperta, sul divano, in attesa che lo stomaco si apra abbastanza per pranzare. E, anche se ora siamo calmi, qui, tranquilli, sul divano a non far nulla e a pensare a tutt’altro, ecco, io ho sempre l’impressione di viaggiare su un ottovolante – e guai se avessi voglia di scendere. È il mio cuore che batte all’impazzata e batte all’impazzata perché non batte da solo: è incalzato dal suo cuore, che accelera e rallenta il ritmo finché entrambi i muscoli non battono all’unisono. È la promessa di godersi il viaggio, col sorriso fresco dell’aria che sferza improvvisa e che ci accarezza delicata la pelle. 


Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Coppia che si abbraccia, 1898-1899
Soundtrack: Tenth Avenue North, Beloved

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
E' ... normale che mi sia innamorata di questa coppia e faccia il tifo per loro?!
Stupenda anche questa puntata del racconto. Belli anche i disegni. Chi è l'autore/autrice?
Buon fine settimana.
Veronica ha detto…
Cara Maria, ti ringrazio per il tuo... tifo ^_^. I disegni sono schizzi, divertissement o disegni preparatori del grandissimo, immenso Gustav Klimt. Di solito pensiamo a Klimt solo come all'artista dei grandi cicli decorativi in oro, ma è stato un disegnatore abilissimo, incantevole, magnetico, veloce, espressivo, fortemente emotivo e incredibilmente contemporaneo.
Grazie ancora per le tue parole. A presto!!