Invisible Monsters - Chuck Palahniuk

Autore: Chuck Palahniuk - Anno: 1999 - Traduzione: Manuel Rosini - Casa Editrice: Mondadori

Continua il viaggio nell'universo di Chuck Palahniuk: impossibile rimanere senza le sue righe. L'esigenza di divorare la sua opera omnia nasce dalla voglia di mettere assieme tutti i puzzle di quello che sembra un unico, lunghissimo romanzo, composto – finora – da dodici, grandi capitoli.
Invisible Monsters può essere una di quelle storie che cambiano l'esistenza. Dentro c'è il mondo, c'è tutta la vita.

Invisible Monsters è una sorta di Fight Club al (quasi) femminile. Shannon McFarland è una ragazza bellissima. Fa la modella ancora a bassi vertici, ma la sua bellezza non potrà che portarla in alto, davvero in alto, in cima a tutte le passerelle. Un giorno, però, mentre guida, Shannon viene raggiunta al volto da un misterioso sparo. In breve: perde metà faccia. Di lei, della vecchia, bellissima Shannon rimangono solo gli occhi. Via mascella e mandibola, via i denti, via la lingua, che si riduce ad un molle muscolo ormai inservibile. Shannon non parla più. Shannon diventa un mostro, costretta ad andare in giro con masse di veli per non scioccare gli occhi altrui. Shannon, da qualche parte, ha un fratello di un anno più grande, Shane: omosessuale – almeno per quello che dicono i genitori – cacciato di casa, apparentemente morto di AIDS. Shannon ha (aveva) una migliore amica, Evie, modella anche lei, ma non davvero bella: ha troppa carne, ossatura troppo sviluppata e, soprattutto, è invidiosa della bellezza di Shannon.
Shannon ha (aveva) anche un fidanzato, Manus: un poliziotto di trent'anni apparentemente eterosessuale, omosessuale fino in fondo.
Nel suo calvario per ricominciare a parlare, Shannon incontra la Principessa Brandy Alexander. Brandy è transgender. Ha tutto ciò che sembra femminile: seno, labbra, vita, bacino. A Brandy – bellissima – manca solo l'operazione finale per diventare totalmente donna. Operazione che Brandy rimanda con un viaggio, un folle on the road, assieme a Shannon e a Manus. Durante il viaggio da una parte all'altra degli USA, Brandy gira per case in vendita, ruba medicinali (soprattutto ormoni femminili), li trangugia, li rivende. Shannon, invece, in preda ad un odio sconnesso, dà al suo ex fidanzato Manus ormoni femminili di nascosto. Vuole distruggerlo. Shannon vuole distruggere tutti, in primis se stessa. Fino ai mille colpi di scena, finali e non, che tappezzano una storia che è quella e che alla pagina successiva non è più quella, non più la stessa, è sempre un'altra storia.

Palahniuk scrive un romanzo geniale. Alla sua base, vi è una tra le filosofie più complesse trovate sinora nei suoi libri. L'identità: uno sfuggente tramite tra il nostro aspetto fisico e ciò che siamo dentro. In Fight Club, Palahniuk era arrivato a dire che non siamo il nostro nome, non siamo la nostra casa, né il nostro lavoro. Per essere qualcuno dobbiamo essere qualcun altro. In Invisible Monsters arriva alle estreme conseguenze di questo ragionamento. Perché neppure ciò che possediamo davvero – la nostra faccia, il nostro corpo – ci appartiene. E neppure la nostra storia ci appartiene, perché è una storia fatta di racconti, parole, definizioni.
Passiamo tutta la vita ad autodefinirci e a essere eterodefiniti (concedetemi il termine). Siamo oppressi dalla definizione degli altri, che può essere quella speranzosa e ossessiva dei genitori, quella delle istituzioni, quella della società, della pubblicità, dei modelli di bellezza. In base a ciò che dicono gli altri, tentiamo di autodefinirci. Ma perché dovrei essere io con il capo firmato o i capelli di quel colore o con le labbra in quel preciso modo? Chi dice che il riflesso nello specchio sia veramente io, io come voglio essere, io come come sono?
E, così, Palahniuk fa un'operazione complessa: crea dei personaggi che, allo specchio, hanno un riflesso diverso rispetto al loro sembiante. Nessuno è come è: Shannon che era una bella modella e che ora è un mostro, l'eterosessuale che è omosessuale, il morto che non è morto, la donna che non è davvero donna, il transgender che non è né etero, né trans, né omosessuale. La definizione dell'individuo – e del personaggio – si sposta sempre più in là fino a diventare completamente sfuggente. Il fatto è che se vuoi essere davvero te stesso, autonomamente te stesso, devi essere invisibile. Devi sfuggire a qualsiasi definizione. Non devi essere quella costruzione imposta dal te stesso sbagliato e dagli altri. Gli altri, occorre destabilizzarli, impedir loro di ingabbiarti, di darti un nome, un ruolo nell'immenso gioco del mondo.
Che vuol dire essere commessa, insegnante, architetto, blogger, disoccupato, falegname, artigiano, artista, scrittore? Che vuol dire essere ingabbiato in una tendenza sessuale? Che vuol dire il nostro nome? E che vuol dire il nostro aspetto fisico, quell'immagine che non è mai ferma, sempre transeunte, sempre naturalmente in movimento e sempre fermato – da noi, da tutti – in uno stereotipo? Non vuol dire nulla, perché nessuna di queste parole ha realmente un senso per quell'infinito che abbiamo dentro e che ci ostiniamo a rendere de-finito, finito, chiuso, circoscrivibile. È che l'essere umano indefinito ci fa paura. Non è catalogabile. Eppure l'in-, l'indefinito, l'invisibile, l'infinito è ciò che può definirsi realmente essere, realmente libero.
Arrivi alle ultime righe di Invisible Monsters e rimani basito, solo, perso. Con una storia tra le mani che non è più una storia, è anche la tua storia. È pura vita che scorre, pulsante.

È questo il bello della scrittura di Palahniuk: parole che sanno di vita. Non ci sono quei vuoti giri di parole, infarciti di tecnicismi da esperto di grammatica. La sua scrittura scorre liscia, eppure i giochi di parole abbondano e sintassi e lessico si fanno complessi. Qui, prendendo spunto dal flash che colpisce le fotomodelle, Palahniuk dà vita ad uno stile, appunto, a "forma di flash": nulla appare lineare, l'autore va avanti e indietro di continuo, senza rispettare la cronologia, ma solo l'abbagliante e sfuggente poetica del lampo. Anche le frasi appaiono più spezzettate che mai, veri e propri flash spesso non subito comprensibili, ma carichi di significati densi.

L'impressione che si ha è che Palahniuk non è uno scrittore. Come i suoi personaggi sfuggono a ogni definizione, anche lui sfugge alla semplice, mera definizione di scrittore. Perché Palahniuk, oltre che scrittore, è regista, fotografo, pittore, scultore, attore, oratore. E non necessariamente sempre in quest'ordine. Palahniuk ha il pregio, da poche saettanti frasi, di creare immagini potentissime. Di comunicare pensieri profondi oltre ogni limite. La sua scrittura esce fuori di sé e non è più scrittura. È quell'immaginità di Ejzensteijn, è quella quarta dimensione che il regista russo ricercava nell'arte: il tempo, la vita, le palpitazioni del cervello e del sangue intraducibili nel linguaggio scritto e parlato. Sì, la scrittura di Palahniuk è estatica. Esce fuori dal libro, si fa film, foto, pittura e, paradossalmente, esempio.

Commenti

Vele Ivy ha detto…
Il tuo modo di recensire fa venire voglia di leggere tutto quello che leggi tu...
:-D
Comunque è curioso, avevo visto questo romanzo in libreria e stavo meditando se leggerlo o no... quello che mi spaventa di più è il nichilismo di cui parli anche nel post sopra, sebbene poi tu riesca a trovare due possibili "scappatoie" (concedimi il termine).
Sono attirata ma anche un po' frenata... ci penserò un altro po'!
;-)
Veronica ha detto…
Guarda... il nichilismo di Palahniuk quasi ti concilia con il mondo. Perché ha il potere di distruggere tutto ciò per cui ci ammazziamo ogni giorno e di farci vedere quello che davvero è importante. Quelle due scappatoie non le ho trovate io, è Palahniuk a metterle lì in mostra. E lo fa perché sa che non è facile ricostruire la propria storia e amare qualcuno incondizionatamente. Quindi... te lo consiglio caldamente ^_^!