Django



Anno: 1966 - Nazionalità: Italia/Spagna - Genere: Western - Regia: Sergio Corbucci


Django è un western targato anni Sessanta, nato nello stesso periodo dell'epocale e mitica Trilogia del Dollaro di Leone. Spaghetti western vennero definiti questi film dai critici americani, per indicare un western molto diverso da quello fordiano, johnwayniano, buonista e razzista di Hollywood. Spaghetti western ha un senso dispregiativo, senza dubbio, ma proprio quel western all'italiana, prodotto senza pretese, come un B Movie destinato al pubblico di massa e poi al dimenticatoio, avrebbe fatto scuola e sarebbe rimasto nella memoria di molti.

Non parliamo solo del western come fonte di ispirazione per Tarantino o Robert Zemeckis (che ha omaggiato l'Eastwood di Leone più volte nel suo Ritorno al Futuro): parliamo, più in generale, di scuola dell'inquadratura, scuola del primissimo piano e del campo lungo, scuola dei ritmi, dello zoom e della profondità di campo, della musica con evidente costruzione drammatica, di scuola della sceneggiatura, scuola di battute ad effetto e, ultimo ma non meno importante, scuola di cinema fucina di antieroi, bastardi e cinici, senza paura ma pieni di macchie. Fino a quel momento, nei film di genere, gli eroi erano per lo più limpidi: solo ai noir erano relegate figure più intense e ricche del fascino dell'ambivalenza.

Così, ecco che certe etichette, come eroe, buono e giusto, si declinano in diversi modi. Quel Buono di Leone non è poi così buono: ha solo un senso della giustizia tutto suo in un mondo in cui la giustizia non esiste.

Spaghetti western ha significato anche scuola dell'icona: e, così, un poncho o una bara diventano simboli che attraversano anni e anni di storia del cinema e che appassionano e ispirano oggi come allora.

Non esagero se dico che anche l'universo del fumetto e del manga abbia attinto a piene mani da quelle storie tutte italiane, almeno per la costruzione dell'eroe in conflitto con il resto del mondo.

Django è indubbiamente tra questi film. Non solo perché Tarantino lo ha amato tanto da dedicargli un film ad esso ispirato. No. In Django di Corbucci c'è moltissimo da leggere.

Un film non perfetto, con una sceneggiatura non sempre di ferro, solida nella prima parte, più slabbrata nella seconda. Rimane un fatto inequivocabile: Django è tra i film più iconici della storia del cinema italiano – e non solo. Django non punta tanto sulla sceneggiatura, ma sulle singole immagini e sui simboli che da esse nasceranno. L'icona, in Django, è ciò che emerge, la cosa realmente importante del film. Perché è proprio quell'icona che sa emozionare lo spettatore più di mille sceneggiature impeccabili. 

La prima icona è Django vestito con la divisa nordista che si trascina una bara. Potente quell'immagine: Django è quasi un fantasma, l'abito strappato, gli stivali sporchi di fango, il cappello nero, la bara infangata, la corda sfilacciata. Django porta con sé la morte e un presagio pesante. Fa più paura la sua immagine che la sua pistola.

Poi c'è il rosso dei fazzoletti e dei cappucci del maggiore Jackson, un razzista ante Ku Klux Klan convinto che i messicani siano una razza inferiore: si diverte e massacrarli facendoli correre e sparandogli come fossero piattelli.

Il saloon. Corbucci fa sì che il suo saloon diventi Il Saloon per eccellenza, luogo di bevute, scazzottate, tensione e prostituzione.

Infine, c'è l'ultima icona, quella che rimane tanto quanto l'uomo con la bara: la tomba con la pistola insanguinata. Non servono parole. Anzi: più silenzio c'è, più l'icona svolgerà il suo compito e riuscirà a bucare lo schermo.



La musica, in Django, è presente, firmata da un maestro come Luis Bacalov. Ma rimane in disparte: conta molto di più il sibilo del vento che si intrufola in ogni buco, in ogni serratura e in ogni scena, quasi a fare da osservatore silenzioso, a ritmare intere sequenze.

Corbucci si diverte a suddividere lo spazio in piani quasi arditi, apparentemente scollegati, ma uniti tra loro dal concetto, producendo vera e propria attesa, vera e propria tensione. Una sequenza su tutti: la scazzottata tra Django e Riccardo nel Saloon, ripresa sia oggettivamente che in soggettiva. Le inquadrature in soggettiva, agitate e quasi surreali, ci fanno sentire la presenza della macchina da presa, anzi, la vita autonoma del mezzo cinematografico.

Perché, in fondo, un Leone o un Corbucci hanno fatto questo: hanno reso presente la macchina da presa, la regia, la musica e la fotografia. Ed è questa consapevolezza del mezzo che è giunta ai registi più attenti, Tarantino in primis.

Commenti

Vele Ivy ha detto…
Devo ammettere di essere abbastanza ignorante riguardo agli spaghetti Western, ma mi ha colpito molto la descrizione che ne hai fatto. E' bello pensare che dei film italiani - per quanto inizialmente considerati come semplici B-Movie - abbiano influenzato così tanto l'iconografia cinematografica/fumettistica.
Ho guardato il video che hai postato e devo ammettere che mi ha catturata! Il protagonista è logoro, sporco e inquadrato di spalle, ma a suo modo espressivo e crea un'attesa nello spettatore che ha qualcosa di epico.. e la canzone è molto bella. Sono contenta di aver scoperto questa chicca in preparazione del film di Tarantino, che andrò a vedere la settimana prossima!
É molto interessante e bello il tuo blog, complimenti. Besos desde España.

http://redecoratelg.blogspot.com.es/
Veronica ha detto…
Cara Vele, la canzone di Django del 1966 sarà fondamentale per il Django di Tarantino.
Django Unchained è meraviglioso. Spero che un giorno recupererai quello del nostrano Corbucci, perché merita davvero.
Per ora, un grande abbraccio!

@Maria, benvenuta da queste parti! A presto!
Vele Ivy ha detto…
Volontariamente non leggo ancora la recensione di Django Unchained, perché voglio andare al cinema senza nessun tipo di aspettativa... ci risentiamo nel weekend! :-)